martedì 24 marzo 2020

Il bravo papà


30 anni prima (1984). Eravamo appena usciti da Buoncammino. A trovare zio Carmine lì, per i soliti motivi. Che qualcosa non era andata bene, che qualcuno se l’era cantata, o che semplicemente la fortuna era girata all’improvviso nel senso inverso. Papà era rimasto a casa, non amava il carcere, ero andato io solo con mamma. Zio Carmine era suo fratello minore, il più piccolo, “un bravo ragazzo,” come diceva papà.

Presi il gelato all’ultimo chiosco del viale di fronte alla Polizia. Il fior di fragola, il mio preferito. È una bella mattina di aprile, piena primavera qui da noi a Cagliari, il paradiso terrestre, veramente. Poi ripresa la passeggiata verso casa, poche centinaia di metri, forse un chilometro. Mamma è ancora una bella donna. Ragazza, come preferisce essere definita lei. Solo 34 anni. Mi ha avuto “da giovanissima,” come spiega quando le chiedono se sia mia cugina  o mia sorella. Lei arrossisce e ribatte sorridente ed imbarazzata che è mia madre. Scarmigliandomi i capelli con le mani belle.

Mamma della peste, che sono io, Vittorio Piras, per gli amici e in famiglia Vittorino. Figlio del boss del quartiere, boss della droga. E lo sanno tutti. Pure la giusta, ma per ora lo lasciano lì dov’è, a fare quello che fa, a tirare le fila dei traffici in città. E anche a tenere un po’ l’ordine, in quartiere in particolare, che ora è vivibile.

“Non come 20 anni fa, che era il far west!” Spiegava orgoglioso papà come se si sentisse più un vecchio signorotto feudale che un comune delinquente. Abbiamo una bella casa con giardino e piscina, due bei pastori tedeschi puri con pedigree, Tom e Hak, come il cartone animato. Fratelli. Io invece fratelli non ne ho. Anche se papà quando ha le sue voglie - come le chiama mamma ridendo e parlando al telefono con le sorelle - le dice proprio così: “Andiamo a fare un fratellino a Vittorino.”

Papà è un bravo papà, non molto affettuoso e mieloso ma mi ha insegnato i sani principi della vita. Il rispetto, la dignità, la solidarietà, l’amore per gli animali, non fare mai la spia.  E mi accompagna  pure a scuola Basket al Palazzetto dello Sport, vicino a dove è cresciuto lui, il mercoledì ed il venerdì pomeriggio. E pure la domenica al ‘Cavalluccio Marino’ a giocare ai videogiochi.

Il brano è tratto da “Perdenti”, di Francesco Melis, edizioni “Sa Babbaiola”


Una Birra In compagnia


Due ore dopo. Le 14:00 circa (2013): E come nulla fosse accaduto, e come se tutto quel tempo non fosse mai passato, Nicolino, Salamandra, Poppi, Monaco, Nuccio e pure Donny si ritrovarono a bere birra Ichnusa ghiacciata nelle tipiche bottiglie marroni da 66 cl in Viale Buoncammino. Viale storico cagliaritano che dà il nome all’altrettanto storico ex carcere cittadino. Costruito su uno dei tanti colli che caratterizzano la nostra città. Offrendo panorami mozzafiato e camporelle urbane per frettolosi o clandestini amanti.

“E per far onore a Luigi Degortes in arte Salamandra…tottus a Casanza!” Così fra le risa Nicolino suggellò la decisione quasi fisiologica di andare a festeggiare la fresca laurea dell’amico Monaco, ad uno dei tanti  chioschi del suddetto viale fronte casa circondariale. Alberato e con  tott’arrogau38 camminamento. Tipica meta di famiglie, ceffi ed altro, in particolare nelle afose serate casteddaie, in cerca di refrigerio.

Visto pure che viale Buoncammino era a poche centinaia di metri dalla Facoltà di Economia, dove neanche un’ora prima Gabriele Santini, pò is ammigusu sempri Monaco, strappò, e anche lui non se ne capacitava ancora bene, l’agognato titolo di ‘dottore in Economia Aziendale’. A quasi quarantatre anni suonati. Ma meglio tardi che mai.
Il cugino Giorgio invece se n’era andato, per un fantomatico quanto farloco39 impegno inderogabile. In realtà non amava una certa compagnia a parer suo non molto rispettabile e pure - e forse soprattutto - per non pagare la scommessa persa. Della bevuta, della ghenga. “I disperati,” come li chiamava lui, che non sarebbero arrivati mai.

Ed invece eccoli lì, tutti a quarant’anni suonati, dentro a petti doloranti, sopra piedi e gambe consunte, sotto a un cielo che ancora una volta benevolo li aveva voluti tutti assieme riuniti, dopo tantissimi anni, a ridere e bere e raccontare storie più false che vere, più o meno ognuno sempre nel ruolo che gli si confaceva. Mancava solo Valter Arixi, “che farà di tutto per arrivare comunque,” lo giustificò Monaco, senza dilungarsi però in spiegazioni ulteriori. Ogni tanto qualche ospite del carcere a fine pena o altro, passando di fronte ai nostri amici, si soffermava sul volto di Salamandra, du castìara, come avesse visto qualcuno di familiare. 

E così era, povero Gigi, come lo chiamavano ora, e come lo avevano chiamato per quasi dieci anni in comunità, a Macchiareddu, zona industriale vicino a Capoterra. E anche se ormai era un’altra persona, il suo viso era riconoscibile, amico, connottu, insomma, a molti appartenenti a quella categoria di umanità varia, che a vario titolo,  ahi-loro, avevano frequentato e frequentavano assiduamente ed abitualmente, carceri, prigioni, istituti di pena, case circondariali. Casanzeris insomma.

Il brano è tratto da “Perdenti”, di Francesco Melis, edizioni “Sa Babbaiola”


lunedì 23 marzo 2020

Il pugile


9 anni dopo (1998): La gente fuori urla. Un centinaio di persone ma ben scalmanate e con le voci scordate. Mancano dieci minuti a mezzogiorno. E fuori piove. Siamo a Roma, periferia Nord. Il mese è novembre, una giornata piovosa di novembre. E Valter Arixi lavora. Si prepara a lavorare. Si concentra. Si riscalda. Medita. Respira. Cerca di liberare la mente. Dentro al suo accappatoio di panno da quattro soldi arancione.

Di fronte a lui Cesare. Zio Cesare, come viene chiamato nell’ambiente. Il suo allenatore, sessantacinque anni ed un passato da pugile. Dà pugni in aria, Valter. Poi a un sacco malconcio appeso con una catena ad una balaustra. Valter è pensieroso. È di poche parole, ma questo come sempre. Oggi però è una giornata strana. Decine d’incontri ogni settimana. Rigorosamente clandestini.

Periferia Nord di Roma, giornata piovosa di fine novembre. Temperatura buona. Dentro a questo capannone dismesso un centinaio di persone aspettano che Valter Arixi incontri Samuel De La Roche. Francese di Marsiglia. Kick Boxer. Gli spettatori sono anche scommettitori. In una cella frigorifera dell’ex mattatoio -improvvisata come spogliatoio - l’orologio a muro segna cinque minuti a mezzogiorno.

“Andiamo” fa Cesare col suo accento romano d’altri tempi. Poca scuola e molto ring. Campione del Lazio negli anni ‘60. Poi una palestra ad Aprilia. Dove viveva ancora allora con la moglie. Tanto cuore signor Cesare. Nessuna pensione, faceva questo per campare.

Valter tira ancora l’ultimo pugno all’aria e s’incammina verso la zona del combattimento. Il capannone è semibuio. Stretti corridoi e pareti  di metallo forellato. Scale di metallo. Pilastri di metallo e cemento armato. Al centro il ring. Dieci metri per dieci. Delimitato da una ringhiera alta due metri, di sbarre di metallo scuro ed ossidato. Scuro e ossidato come tutto il resto. Illuminato a giorno da quattro grossi fari posizionati in alto ai quattro angoli dell’inferriata, alimentati da gruppi elettrogeni a cherosene. Che appesta tutto il capannone.

Valter passa fra la gente con zio Cesare che lo precede di due passi. La gente urla. Qualcuno lo tocca. Qualcuno lo insulta. Dall’altra parte un oriundo di poco più di vent’anni anche lui. Sembrerebbe di origini maghrebine. Alto e segnato dalle cicatrici. Di strada e acne. Coi capelli rasati e una codetta sulla nuca pelata.

Il brano è tratto da “Perdenti”, di Francesco Melis, edizioni “Sa Babbaiola”


Affrontare una donna


2 ANNI DOPO (1984):  La sera non diceva niente di buono. Vento e pioggia e buio alle cinque del pomeriggio. Anche in Sardegna era inverno. Ci riunimmo come al solito nella scuola media, nel consunto e lercio marciapiede di fronte all’ingresso.

Tutto era stato organizzato. Ci incontrammo alle sette meno dieci. Direzione dell’amore. Sì, perché decidemmo di usufruire - di godere, letteralmente - di un servizio prezioso per il rione. Direi indispensabile. Rina. La bagassa di quartiere. Che aveva svezzato due generazioni di maschi. Forse tre. Ormai meno gettonata visto i suoi quasi cinquant’anni, ma che faceva ancora parte delle fantasie sessuali di tutti gli adolescenti. E anche delle nostre.

La conoscevamo da sempre. Grassoccia. Un metro e sessanta circa. Bionda ossigenata. Labbra prominenti. Tettona e culona. Mitologiche le sue fellatio. Comunque. La vedevamo fare la spesa. O vicino a casa sua con qualche cliente. Non certo bella ma sensuale. Sessuale. Carnale.  O passare con la sua uno grigia diesel smarmittata3

 Prese gli accordi Poppi. Che aveva un cugino suo cliente, a detta sua. E poi il più smaliziato di tutti noi. In realtà eravamo tutti verginelli.4 Anche se qualcuno - Salamandra - raccontava di una fantomatica lontana cugina napoletana che gli avrebbe fatto assaporare i piaceri dell’amore quell’estate, in un non ben identificato campeggio vicino a Cagliari. Cazzarasa!

Eravamo un po’ tesi. Un po’ spaventati. Camminavamo piano chiacchierando come se nulla fosse. Il più eccitato era Poppi. Che raccontava cosa le avrebbe fatto e delle sue doti fisiche nascoste, nonostante la bassa statura e la magrezza. Sinché non arrivammo al suo civico, in un vicolo semibuio della zona vecchia del quartiere. Nessuno voleva suonare. Ma erano già le sette. Ora dell’appuntamento.

 Poppi aveva pattuito per ventimila lire a testa. In realtà decidemmo di fare colletta. Dando fondo ai piccoli risparmi che mettevamo da parte durante le feste. E decidemmo di offrire quell’iniziazione a Salamandra. Al secolo Gianluigi Degortes, il più duro di tutti noi. Rispettatissimo in quartiere da coetanei e non. Sì. Perché Salamandra il giorno dopo sarebbe partito per Sassari, e anche se lui raccontava di esser già stato con una donna noi lo volevamo salutare così. Con una scopata.

Il brano è tratto da “Perdenti”, di Francesco Melis, edizioni “Sa Babbaiola”


Piccoli Perdenti


Questa storia incomincia circa trent’anni fa. Nel maggio del 1982. Un temperato e ventilato pomeriggio di maggio. In una delle terre più belle del mondo. La Sardegna e, con precisione, Cagliari. I protagonisti sono una banda di dodicenni. Salamandra, Nuccio, Poppi, Nicolino, Io, Valter, Gabriele (detto “Monaco”).

Siamo in un quartiere misto popolare. Per misto popolare intendo che ci abitano sia avanzi di galera che assessori, commercianti che spacciatori, disoccupati che professori universitari. Con case popolari, molte, vicino a lussuosi palazzi e ville. Dove noi bambini, tutti i bambini, venivamo a contatto, ci strusciavamo (come diceva qualcuno) come le patate, sporcandoci e ripulendoci l’un l’altro.  A scuola, in chiesa, in strada, nei campetti sterrati e nelle piazzette semibuie del quartiere.

Il figlio dello spacciatore col figlio del professore, e quello del meccanico, e quello dell'assessore e quello dell’ubriacone disoccupato.  Dove il buio delle strade è luogo d'esperienza, fucina di vita, per tanti preadolescenti ed adolescenti.

Abbandonato ormai il pallone ed i soldatini, andavamo in giro per il quartiere, a ‘divertirci’. E divertirci significava tante cose, ma in particolare staccare le targhette - marca e modello - dalle macchine, con coltellini, temperini, cacciaviti o altro, trafugati ognuno dalla propria casa. 

Asportare lo stemmone Mercedes che troneggiava - quasi come un mirino - in bella vista sul cofano delle stesse lussuose autovetture di fabbricazione tedesca. Spruzzare i passanti con gli spruzzini -erogatori spray - dei detergenti da cucina riempiti d’acqua. Tirare carta igienica imbevuta d’acqua e appallottolata - detta cioff - dalle finestre di casa. Furtarelli nei vari alimentari di quartiere e nella cartoleria di sig.ra Rosa. Ecc, ecc, ecc. Insomma, nulla di particolare.

Il brano è tratto da “Perdenti”, di Francesco Melis, edizioni “Sa Babbaiola”