lunedì 23 marzo 2020

Il pugile


9 anni dopo (1998): La gente fuori urla. Un centinaio di persone ma ben scalmanate e con le voci scordate. Mancano dieci minuti a mezzogiorno. E fuori piove. Siamo a Roma, periferia Nord. Il mese è novembre, una giornata piovosa di novembre. E Valter Arixi lavora. Si prepara a lavorare. Si concentra. Si riscalda. Medita. Respira. Cerca di liberare la mente. Dentro al suo accappatoio di panno da quattro soldi arancione.

Di fronte a lui Cesare. Zio Cesare, come viene chiamato nell’ambiente. Il suo allenatore, sessantacinque anni ed un passato da pugile. Dà pugni in aria, Valter. Poi a un sacco malconcio appeso con una catena ad una balaustra. Valter è pensieroso. È di poche parole, ma questo come sempre. Oggi però è una giornata strana. Decine d’incontri ogni settimana. Rigorosamente clandestini.

Periferia Nord di Roma, giornata piovosa di fine novembre. Temperatura buona. Dentro a questo capannone dismesso un centinaio di persone aspettano che Valter Arixi incontri Samuel De La Roche. Francese di Marsiglia. Kick Boxer. Gli spettatori sono anche scommettitori. In una cella frigorifera dell’ex mattatoio -improvvisata come spogliatoio - l’orologio a muro segna cinque minuti a mezzogiorno.

“Andiamo” fa Cesare col suo accento romano d’altri tempi. Poca scuola e molto ring. Campione del Lazio negli anni ‘60. Poi una palestra ad Aprilia. Dove viveva ancora allora con la moglie. Tanto cuore signor Cesare. Nessuna pensione, faceva questo per campare.

Valter tira ancora l’ultimo pugno all’aria e s’incammina verso la zona del combattimento. Il capannone è semibuio. Stretti corridoi e pareti  di metallo forellato. Scale di metallo. Pilastri di metallo e cemento armato. Al centro il ring. Dieci metri per dieci. Delimitato da una ringhiera alta due metri, di sbarre di metallo scuro ed ossidato. Scuro e ossidato come tutto il resto. Illuminato a giorno da quattro grossi fari posizionati in alto ai quattro angoli dell’inferriata, alimentati da gruppi elettrogeni a cherosene. Che appesta tutto il capannone.

Valter passa fra la gente con zio Cesare che lo precede di due passi. La gente urla. Qualcuno lo tocca. Qualcuno lo insulta. Dall’altra parte un oriundo di poco più di vent’anni anche lui. Sembrerebbe di origini maghrebine. Alto e segnato dalle cicatrici. Di strada e acne. Coi capelli rasati e una codetta sulla nuca pelata.

Il brano è tratto da “Perdenti”, di Francesco Melis, edizioni “Sa Babbaiola”


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