9 anni
dopo (1998): La gente fuori
urla. Un centinaio di persone ma ben scalmanate e con le voci scordate. Mancano
dieci minuti a mezzogiorno. E fuori piove. Siamo a Roma, periferia Nord.
Il mese è novembre, una giornata piovosa di novembre. E Valter Arixi lavora. Si
prepara a lavorare. Si concentra. Si riscalda. Medita. Respira. Cerca di
liberare la mente. Dentro al suo accappatoio di panno da quattro soldi arancione.
Di fronte a lui
Cesare. Zio Cesare, come viene chiamato nell’ambiente. Il suo allenatore, sessantacinque
anni ed un passato da pugile. Dà pugni in aria, Valter. Poi a un sacco
malconcio appeso con una catena ad una balaustra. Valter è pensieroso. È di
poche parole, ma questo come sempre. Oggi però è una giornata strana. Decine d’incontri
ogni settimana. Rigorosamente clandestini.
Periferia Nord
di Roma, giornata piovosa di fine novembre. Temperatura buona. Dentro a questo
capannone dismesso un centinaio di persone aspettano che Valter Arixi incontri
Samuel De La Roche. Francese di Marsiglia. Kick Boxer. Gli spettatori sono
anche scommettitori. In una cella frigorifera dell’ex mattatoio -improvvisata come
spogliatoio - l’orologio a muro segna cinque minuti a mezzogiorno.
“Andiamo” fa
Cesare col suo accento romano d’altri tempi. Poca scuola e molto ring. Campione
del Lazio negli anni ‘60. Poi una palestra ad Aprilia. Dove viveva ancora
allora con la moglie. Tanto cuore signor Cesare. Nessuna pensione, faceva
questo per campare.
Valter tira
ancora l’ultimo pugno all’aria e s’incammina verso la zona del combattimento.
Il capannone è semibuio. Stretti corridoi e pareti di metallo forellato. Scale di metallo.
Pilastri di metallo e cemento armato. Al centro il ring. Dieci metri per dieci.
Delimitato da una ringhiera alta due metri, di sbarre di metallo scuro ed
ossidato. Scuro e ossidato come tutto il resto. Illuminato a giorno da quattro
grossi fari posizionati in alto ai quattro angoli dell’inferriata, alimentati
da gruppi elettrogeni a cherosene. Che appesta tutto il capannone.
Valter passa
fra la gente con zio Cesare che lo precede di due passi. La gente urla.
Qualcuno lo tocca. Qualcuno lo insulta. Dall’altra parte un oriundo di poco più
di vent’anni anche lui. Sembrerebbe di origini maghrebine. Alto e segnato dalle
cicatrici. Di strada e acne. Coi capelli rasati e una codetta sulla nuca
pelata.
Il
brano è tratto da “Perdenti”, di Francesco Melis, edizioni “Sa Babbaiola”
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